Attualità
Varallo-Svezia: Lucia è manager di “Save the children”
Varallo-Svezia per migliorare le condizioni di vita dei bambini di tutto il mondo: l’esperienza di vita di Lucia Manzone.
Varallo-Svezia: il lavoro
Da Varallo al mondo, con un master in cooperazione allo sviluppo in tasca: quella della varallese Lucia Manzone è decisamente una storia da raccontare. Dopo diversi periodi trascorsi in giro per il mondo, da sei anni vive a Stoccolma, dove ha messo radici e costruito una famiglia. In Svezia, però, la trentasettenne non si occupa solo delle sue due bambine: è infatti program manager per Save the Children, organizzazione non governativa che opera a favore dell’infanzia.
In cosa consiste il suo lavoro?
Save the Children Svezia fa da tramite con i donatori, che possono essere enti privati ma anche pubblici, come l’Unione Europea o il Governo svedese, e porta avanti progetti dedicati ai bambini in tutto il mondo. Io mi occupo principalmente dell’Asia, controllo che tutto venga realizzato come dovrebbe e molto spesso mi reco sul posto per visite di monitoraggio. Viaggio soprattutto in Thailandia, Vietnam e Indonesia e seguo anche lo Zambia, in Africa.
Sul posto
Come avviene questo tipo di controllo diretto, sul territorio?
Durante i miei sopralluoghi incontro l’ufficio e lo staff locali, ci confrontiamo dietro a una scrivania e poi scendiamo sul campo: visitiamo scuole, se si tratta di progetti legati all’istruzione, oppure organizzazioni e ministeri per capire come implementare il nostro operato. Save the Children Svezia lavora soprattutto con progetti di protezione dei bambini in termini legali: facciamo pressioni sui Governi affinché passino leggi a favore dei più piccoli.
Ma le sue esperienze nell’ambito della cooperazione internazionale non finiscono qui…
Ho iniziato in questo settore subito dopo il master, in una ong milanese con progetti in India e Brasile, poi sono stata un anno in Mozambico con un’altra organizzazione. Tornata a Milano per un paio d’anni, mi si è presentata l’opportunità di partecipare come osservatore elettorale a una missione con l’Onu a Timor Est, un Paese oggi indipendente ma con alle spalle tanti anni di guerra. Era il momento delle elezioni e bisognava controllare che si tenessero senza problemi e brogli.
In Scandinavia
E poi c’è stata la Svezia…
A Timor Est ho conosciuto mio marito Alberto, spagnolo. Dopo un anno, a entrambi era scaduto il contratto e lui aveva ricevuto un’offerta a Stoccolma. L’ho seguito. All’inizio non è stato facile trovare un impiego per me: il nostro è un ambito un po’ di nicchia e non per tutti i lavori è sufficiente conoscere l’inglese. Allora ho studiato lo svedese. E’ nata la mia prima bambina, ho trovato un posto in una piccola ong ed è arrivata anche la seconda. Dopo tutto questo, ecco Save the Children, dove sono da due anni. Ci è voluto del tempo, ma sono molto contenta: volevo proprio lavorare per questa organizzazione, una delle migliori tra quelle che si occupano d’infanzia.
Mai pensato a un ritorno a casa?
La Svezia è capitata per caso, ma ci troviamo molto bene e non pensiamo di spostarci, soprattutto adesso che le bambine sono piccole: qui le politiche sociali sono molto buone, anche per chi ha figli e lavora. Non escludiamo di trasferirci in un altro Paese europeo, ma non credo che torneremo mai in Italia per lavoro, perché non c’è offerta per il nostro ambito. A Varallo però ci sono i miei genitori, quindi torniamo due, tre volte all’anno. Qui sono andata a scuola fino al liceo linguistico e per anni sono stata negli scout. Le mie bimbe sono nate in Svezia da un’italiana e uno spagnolo, ma voglio che abbiano un contatto con l’Italia, che conoscano il posto da cui vengo e abbiano un attaccamento.
Dalla parte dei bambini
Oggi, dopo aver trovato il mestiere che tanto aveva sperato, cos’è per lei il suo lavoro?
E’ soddisfazione personale. Amo quello che faccio e mi piace crescere professionalmente ogni giorno. Sapere poi che lavoriamo a favore dell’infanzia dà una carica in più e una motivazione maggiore, anche quando le cose non funzionano e magari dobbiamo chiudere un progetto. In momenti come questi ci si butta un po’ giù, però cerchiamo sempre di tenere a mente il fine ultimo: migliorare le condizioni dei bambini nel mondo.
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