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Romagnano, medaglia della Liberazione al soldato Rea Silvio

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Fu fatto prigioniero per cinque anni in un campo di lavoro degli Alleati in nord Africa

Ha fatto cinque anni di prigionia in nord Africa, in un campo di lavoro degli Alleati. Per questo è stato insignito dal Ministero della difesa della Medaglia della Liberazione. Il romagnanese Rea Silvio Antonini, 96 anni a novembre, ha ricevuto l’onorificenza solo la scorsa settimana, in quanto, per motivi di salute, non aveva potuto prendere parte all’assegnazione di dicembre. Insieme a lui hanno ricevuto l’onorificenza altri romagnanesi, i partigiani Emilio Cerutti, Walter Paltrinieri, Livio Feccia, Antonio Gallantina e il patriota Vincenzo Imazio, tutti ultranovantenni. Quest’ultimo ha compiuto proprio qualche giorno fa 105 anni, confermandosi l’uomo più anziano della Valsesia.

La cerimonia si sarebbe dovuta tenere lo scorso 25 Aprile a Novara, poi però era stata spostata a dicembre per l’arrivo di Sergio Mattarella a Varallo. La scorsa settimana invece si è svolta, in forma minore,, nell’abitazione di Antonini, alla quale hanno preso parte il presidente della sezione locale dell’Anpi, Fiorenzo Galetti, con alcuni rappresentati del sodalizio, il sindaco Cristina Baraggioni e i famigliari dell’ex soldato. Antonini, perfettamente autosufficiente, vive nell’abitazione che aveva condiviso con la moglie, Caterina Cometti, fino al ‘99, anno della sua scomparsa. Si sposò nel ‘49, a due anni dal rientro in Italia; a Romagnano trovò subito occupazione alla cartiera Burgo, poi Burgo Scott, dove rimase fino alla pensione. Antonini ha due figli, Fabrizio e Gabriele. E’ quest’ultimo che racconta la vicenda del padre in guerra.

«Partito per il servizio militare nel gennaio 1941 – racconta il figlio – nel 1942 si doveva imbarcare per la campagna d’Africa, ma pochi giorni prima dell’imbarco si infortunò e non poté partire». Fu una fortuna, perché la nave sulla quale doveva essere imbarcato venne intercettata ed affondata nel viaggio verso l’Africa. «Si imbarcò nuovamente alla fine del 1942 e, dopo pochi mesi sul fronte, all’inizio del ‘43, venne fatto prigioniero insieme a molti altri soldati». Inizia una lunga marcia di trasferimento verso il campo di prigionia gestito dai francesi e dagli arabi. In circa 40 giorni in condizioni estreme vide morire numerosi compagni. «Dopo qualche tempo mio padre fu scelto insieme ad altri nove detenuti per fare lavori nei campi di una fattoria gestita da un arabo e, grazie all’aiuto di un siciliano che lavorava come fattore nella stessa tenuta, riuscì ad ottenere la fiducia del padrone. Diventò così cameriere e tuttofare della famiglia, al punto che spesso gli venivano affidati i figli».

Nel 1947 Antonini viene liberato ed imbarcato con destinazione Napoli e da qui inizia il lungo viaggio verso Milano dove viene a conoscenza delle atrocità commesse dai tedeschi, che per lui erano alleati. «Arrivato a Novara, avverte la famiglia attraverso il posto telefonico pubblico di Romagnano dove finalmente arriva otto giorni dopo la partenza da Napoli». Dopo qualche tempo conosce la futura moglie Caterina Cometti, mia mamma, e, dopo un periodo di fidanzamento, nel 1949 si sposano. «Come tutti coloro che hanno fatto la guerra – dice il figlio Gabriele Antonini – mio padre non parla volentieri degli aspetti più drammatici. Quando una volta mia nipote gli chiese se avesse mai ucciso, lui glissò. Racconta spesso della domanda che si fece, e forse si fa ancora oggi. Due commilitoni, due fratelli sardi entrambi con moglie e figli, persero la vita su una mina: ecco mio padre si chiese perché loro e non lui, che a casa non aveva una moglie e dei figli che lo aspettavano».

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