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Referendum sulla giustizia, per cosa votiamo domenica 12 giugno

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Domenica 12 giugno tutta l’Italia ai seggi per votare i cinque quesiti del referendum abrogativo sulla giustizia.

Referendum sulla giustizia, di cosa si tratta

Lo scorso anno il Partito Radicale e la Lega di Matteo Salvini hanno depositato in Corte di Cassazione sei quesiti referendari riguardanti il settore della giustizia. La raccolta firme è proseguita per tutta l’estate 2021 e ora, domenica 12 giugno, gli italiani andranno ai seggi per votare l’abrogazione di cinque dei sei quesiti proposti (uno è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale: quello sulla responsabilità civile dei magistrati).

Il referendum viene proposto in un momento particolare, perché anche il Parlamento sta lavorando a una riforma strutturale della giustizia (negli scorsi mesi ha approvato la riforma del processo penale e di quello civile). Tre giorni dopo la chiamata ai seggi, infatti, il Senato voterà la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), che propone soluzioni diverse dai quesiti della consultazione.

Ma perché rivedere l’ordinamento giudiziario sembra così importante? Perché l’Italia ha preso un impegno con l’Unione Europea, in cambio dei circa 200 miliardi di euro di finanziamenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

I cinque quesiti abrogativi

Come anticipato, i quesiti referendari sulla giustizia sono cinque e il loro testo si può leggere per esteso sul sito del Ministero dell’Interno. Sono referendum abrogativi, ovvero che richiedono la cancellazione totale o parziale della legge. La domanda sarà introdotta, appunto con la formula: «Volete voi che sia abrogato…?» quindi, se favorevoli all’eliminazione della legge votare “Sì”, altrimenti votare “No”.

Inoltre, affinché il referendum sia valido deve essere raggiunto il quorum di validità: deve cioè partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto.

L’abolizione del decreto Severino

Il primo referendum chiede l’abrogazione per intero della legge Severino (decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012). Tale d.lgs. prevede che in caso di condanna (anche in via non definitiva) parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali diventino automaticamente incandidabili, ineleggibili e la loro carica decada. Il “Sì” al referendum eliminerà gli automatismi della legge e nel caso venisse abrogata saranno i giudici a decidere se applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici.

Limiti agli abusi della custodia cautelare

Il secondo quesito riguarda la custodia cautelare, cioè la custodia preventiva a cui un imputato può essere sottoposto prima della sentenza. Questa è sancita dall’articolo 274 del codice di Procedura penale, nei casi in cui c’è il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di compimento di nuovi e gravi reati. Il quesito referendario limita il carcere preventivo solo alla terza ipotesi di pericolo, ovvero gli accusati di reati gravi.

I promotori sostengono infatti che la custodia cautelare si sia trasformata in una pratica abusata e che l’attuale norma, nella pratica, giustifichi quasi in automatico forme di restrizione della libertà anche in casi in cui l’imputato non sia effettivamente pericoloso. Chi è contrario alla modifica, invece, fa notare che l’articolo 274 stabilisce già dei limiti all’applicazione delle misure cautelari per il caso che il quesito del referendum chiede di abrogare: in caso di pericolo di reiterazione, la custodia cautelare può essere disposta solo se si tratta di delitti che prevedano una reclusione non inferiore a quattro anni o di almeno cinque anni per la custodia cautelare in carcere.

La separazione delle carriere

Il terzo referendum richiede l’abrogazione delle disposizioni che prevedono ai magistrati di passare dalla funzione requirente (pubblico ministero: rappresenta l’accusa) a quella giudicante (giudice: super partes). Con la legge attuale, i magistrati, nel corso della loro vita professionale, possono passare da una funzione all’altra con delle limitazioni e non più di quattro volte.

Se approvato, il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale, senza più la possibilità di passare dall’una all’altra.

Le ragioni a sostegno del referendum sono una maggiore equità e indipendenza che sarebbe garantita solo, dicono i promotori, da una netta separazione tra i magistrati che accusano e quelli che giudicano. Chi è contrario, invece, sostiene che separare le funzioni isolerebbe il PM, allontanandolo dalla cultura della giurisdizione: questo darebbe vita a una cultura dell’indagine e dell’accusa autonoma, sganciata da ogni vincolo e ipoteticamente anche da ogni regola deontologica.

Equa valutazione dei magistrati

Il quarto quesito referendario interviene sulla valutazione dei magistrati. La valutazione della professionalità spetta al Consiglio Superiore della Magistratura, escludendo a componente laica del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari (di fatto, quindi, si tratta di un’autovalutazione tra magistrati). Il “Sì” al referendum eliminerà questa clausola, estendendo anche ai rappresentanti delle Università e dell’Avvocatura nei Consigli giudiziari di avere voce in capitolo nella valutazione.

La riforma del Csm (Consiglio superiore della magistratura)

Il quinto e ultimo referendum chiede l’abrogazione della raccolta firme per il magistrato che intende candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura. La legge attuale richiede, infatti, di accompagnare alla propria candidatura una raccolta firme (tra le 25 e le 50) di altri magistrati.

I promotori del referendum sostengono che, in questo modo, si eviterebbe la situazione, per i candidati, di dover scendere a patti con qualche corrente interna.

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