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Guardaparco alta Valsesia: chiesta la condanna. Ma loro si difendono

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Guardaparco alta Valsesia

Guardaparco alta Valsesia si difendono e respingono le accuse a loro carico.

Guardaparco alta Valsesia si difendono

I due guardaparco dell’ente dell’alta Valsesia, accusati di truffa nell’ambito delle indagini risalenti al 2017, respingono le accuse. Ma la scorsa settimana, nella nuova udienza in tribunale a Vercelli, sono arrivate le richieste di condanna da parte della procura. I due guardaparco ancora sotto processo, Sandro Bergamo e Mattia Sandrini (altri due hanno patteggiato), hanno voluto rilasciare dichiarazioni spontanee in cui contestano le indagini che li riguardano. I due avevano voluto affrontare il processo proprio per dimostrare la propria estraneità ai fatti. Al contrario di loro, nel 2018 altri due guardaparco coinvolti nell’inchiesta avevano deciso di patteggiare la pena a otto mesi e 400 euro di multa con sospensione condizionale, non menzione e risarcimento dei danni.

L’ufficio

Le indagini erano partite nel marzo del 2017 e avevano poi portato a un rinvio a giudizio per truffa, nel senso che gli operatori in più occasioni avrebbero fatto altro durante gli orari di lavoro. Una tesi sempre contestata. Bergamo, ex sindaco di Alagna, durante l’ultima udienza ha spiegato che al contrario avrebbe lavorato ben di più delle 800 ore da contratto, sottolineando la sua totale buonafede. L’avvocato di Sandrini, Lucia Rapana, ha invece spiegato come la casa del proprio assistito venisse utilizzata come ufficio visto che non aveva una vera e propria sede. L’articolata indagine dei carabinieri di Borgosesia fatta di appostamenti e geolocalizzazioni era partita dopo che all’ente parco erano arrivate lettere anonime dove si segnalava l’inosservanza degli orari di lavoro del dipendente in servizio ad Alagna.

Le richieste

La procura ha chiesto la condanna di Bergamo a 18 mesi e 15 mesi per Sandrini, chiesti inoltre risarcimenti dai 16 ai 18mila euro. La procura contesta ai due imputati di non aver rispettato l’orario, svolgendo attività private invece che lavorare. A sostegno i controlli effettuati sui cellulari, i dati emersi da un localizzatore piazzato nell’auto di servizio e alcune riprese. La difesa invece ha chiesto l’assoluzione cercando di dimostrare che il reato di truffa non sussiste. E nelle scorse udienze erano stati portati diversi testimoni, tra cui famigliari e sindacalisti, che avevano presentato una situazione ben diversa rispetto alle accuse sollevate. In particolare erano state fatte sorgere alcune criticità logistiche. Ad Alagna per esempio mancava la timbratrice che certificasse gli orari, i dipendenti li dovevano annotare manualmente, nell’altra sede mancava poi un ufficio o le scrivanie e quindi c’era chi utilizzava a casa il proprio computer personale per lavori grafici.

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