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Casa Mary Zegna verso lo stop: la perplessità di don Albertazzi, fratello di uno degli ospiti | LA LETTERA

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Casa Mary Zegna verso lo stop: la perplessità di don Albertazzi, fratello di uno degli ospiti. Giorni di forte apprensione tra i famigliari delle 38 persone attualmente ospitate nella casa di riposo Mary Zegna di Trivero. La cooperativa che gestisce il servizio ha infatti annunciato che il 15 giugno cesserà questa attività, pare perché l’istituto del Cottolengo, proprietario dell’immobile, non avrebbe intenzione di rinnovare il contratto di affitto. Al momento non trapelano ipotesi alternative (anche se non è escluso che saltino fuori).

Casa Mary Zegna verso lo stop: la perplessità di don Albertazzi, fratello di uno degli ospiti

Di questa situazione di disagio, e anche di qualche perplessità sulla sua origine, si fa interprete don Alberto Albertazzi, parroco di di Crevacuore, che ha un fratello ospite di Casa Mary. Da lui riceviamo e pubblichiamo questa lettera aperta.

«Una volta gli anziani si chiamavano vecchi, termine che personalmente preferisco, perché ci sento dentro nobiltà e autorevolezza dantesca, leggibili nel “vecchio bianco per antico pelo” ( Inferno III 83): connotazione con cui il sommo Poeta manda in scena il poco mite Caronte. Si è cercato di ringiovanire la vecchiaia chiamandola anzianità e i vecchi sono diventati anziani, termine nel quale mi sembra di sentire maggiore fragilità esistenziale. Quando gli anziani erano vecchi, venivano tenuti in famiglia, anche perché raramente necessitavano di assistenza specialistica. L’odierna geriatria obbliga a campare artificialmente oltre i limiti biologici naturali, onde in molti casi gli anziani non si possono più gestire in famiglia, necessitando di supporto infermieristico specializzato.

Nascono così le case di riposo per vecchi e disabili, di cui l’illuminato patriarca mi pare sia il santo Cottolengo. Queste strutture, nella nostra epoca “siglomane” (mania delle sigle) si chiamano Rsa (Residenze sanitarie assistite). Recentemente se n’è parlato in bene e in male: in bene perché effettivamente non mancano eccellenti strutture per anziani; in male perché alcune, spero poche, sono state mediaticamente assimilate a lager o qualcosa di simile. Le Rsa hanno avuto una risalita in termini di attualità nel corso della non ancora superata emergenza Coronavirus. Dalle nostre parti (Valsesia-Valsessera) le non poche Rsa si sono blindate contro il Coronavirus, al punto da non aver all’interno delle loro mura neppure un caso, tanto da essere segnalate dai media come eccellenze nazionali. Mi si dice che alcune direzioni abbiamo persino dovuto litigare con i parenti non ammessi alla visita del loro ricoverato, come misura di strenua cautela contro il Covid 19.

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Si verifica tuttavia ciò che chiamerei una stonatura, in una Rsa nostrana, a me ben nota essendovi ricoverato mio fratello, della quale, per riciclare un’espressione del catechismo classico, posso dire “ogni altro bene senza alcun male”. Ospita circa 40 tra uomini e donne, accuditi con sollecitudine e professionalità esemplari, onde sentitamente li ringrazio. Eppure questa struttura deve sbaraccare perché la proprietà dell’immobile non rinnova il contratto d’affitto con l’ente che la gestisce. Intendiamoci bene. Nessun locatore è obbligato a prolungare il contratto quando ne sono scaduti termini. Stupisce, se addirittura non amareggia, che l’ente religioso proprietario, per vocazione originaria progettato per la cura e assistenza dei più deboli, assuma un provvedimento che, visto dall’esterno, sembrerebbe a dir poco cinico. Anche perché riposizionare quaranta anziani in temperie di Coronavirus è impresa alquanto ardua. Voglio sperare che questo provvedimento sia assunto per una priorità in linea con le intenzioni vocazionali del Fondatore: se così fosse, ritirerei volentieri l’esternato disappunto essendo stato, nei miei molti precedenti, anche cappellano in una casa della famiglia religiosa in questione. Se invece così non fosse, il benemerito Fondatore si voltolerebbe nella tomba. E sarebbe un altro spiacevole colpo di scena, di cui la Chiesa di questi tempi non ha bisogno».

don Alberto Albertazzi

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